di Massimiliano Cappello
Donne profonde di passione e di lotta
dolci amici rabbiosi d’amore
vado col cuore pieno di voi
verso le vostre tracce.
(21 gennaio 1975)
Non sarebbe così difficile constatare la pressoché totale dispersione dell’opera poetica di Giorgio Cesarano. Lo dico nonostante e anzi a dispetto dell’intensa attività di recupero e commento ai testi da parte di alcuni blog, a modo loro «eroici» nel tentare di salvare dall’erosione del tempo e dei server una porzione assolutamente vitale nella ricerca di questa figura tanto centrale quanto sfuggente – sia per il nostro recente passato (più o meno remoto o «da remoto»), sia per l’arroventata attualità del suo personale contributo alla causa poetica e rivoluzionaria, impresso o da imprimere indelebilmente sulla pelle di chi si incontra, si scalda e si organizza attorno a quel focolare.
Dimenticato dalle antologie, mai ristampato, il poeta Cesarano sembra condannato a un destino bifronte e contraddittorio: riverbero del gesto rivoluzionario del politico e del teorico da una parte, dall’altra lirico espressionista del desiderio e della disperazione. È da qui che dovremmo partire, se non altro per opporci all’insensibilità del primo per una parola che oltrepassa se stessa, e alla malafede con cui il secondo, volendola esaltare in sé e per sé, la soffoca nel suo discorso veteroumanista.
Fuori dalle antologie di ieri, dalle query di ricerca di oggi, la poesia perde voce e mandato, cittadinanza ed eredi. Ma Cesarano, quel passo fuori dal cerchio, lo ha compiuto volontariamente. Come non manca di sottolineare Giovanni Raboni nell’Avvertenza al postumo Romanzi naturali (1980), quelli che compongono il volume sono «gli ultimi testi poetici composti da Giorgio Cesarano prima di abbandonare la ricerca letteraria»: una franchezza che ci permette di avvicinare questi «canti ultimi» come altrettanti segnali.
Il primo segnale è questo. «Dentro e contro» una tradizione – quella che fa del «poetico» il fuoco supremo a cui darsi interamente, la parola «pura» di una «verità» sempre più minoritaria, le ormai innocue spoglie di una «sublime lingua borghese» –, Cesarano attraversa la poesia come «ricerca». E quando la abbandona non è per disamore o scoramento: ma è piuttosto per guadagnare un «fuori» dalla parola-forma poetica. I testi tardi e quelli incompiuti – da Apocalisse e rivoluzione (1973) a Manuale di sopravvivenza (1974), fino alla vasta Critica dell’utopia capitale alla quale stava attendendo nell’ora estrema –, ne danno ragione; così come ne danno ragione i testi poetici trascritti senza sosta fino alla morte.
Il secondo segnale che ci viene da questa interruzione volontaria dovrebbe essere la coerente e quasi lancinante estraneità della scrittura poetica di Cesarano da quel «codice di codici» che è la letteratura; e il conseguente rifiuto di qualsiasi «civiltà delle lettere». I maggiori poeti del nostro Novecento sono tali proprio perché furono capaci di non scrivere «ciò che avrebbero voluto», ma «ciò che dovevano»; ma il loro agire fu un agire mediato, messo in forma per quanto informale, interamente racchiuso nello specchio della catarsi o della sublimazione, sospeso indefinitamente tra «esposizione» di questa vita e «prefigurazione» di un’altra per tramite delle lame rotanti della lingua. Cesarano, che pure di questa tradizione è erede e partecipe, ne ricerca intensamente lo sbando, la deviazione. E la tempesta arriverà, sbalzandolo per sempre fuori da ogni tracciato in una data sin troppo simbolica (ma originariamente un nodo concretissimo di fatti e di emozioni): il ’68.
Presentando Gli strumenti umani di Sereni, Franco Fortini ebbe a dire che «per dare torto a questi versi non ci vuole nulla di meno d’una trasformazione, intorno a noi, della vita sociale che per un certo tempo li renda incomprensibili o muti» (Il libro di Sereni, «Quaderni Piacentini», V, 26, marzo 1966, p. 74). Dei versi di Cesarano, si può dire il contrario, e cioè che suonano davvero chiari solo in quell’interruzione, solo nel sopravvenire, attorno a noi, di quella trasformazione della vita sociale:
«Una parola che non suoni come l’ipotetico verbo della salvezza pronunciato dal di fuori del disastro, non si ponga come ricattatorio e falso “altrimenti” che non può darsi; ma suoni invece, compromessa, distorta, a malapena riconoscibile, dal di dentro del disastro (non dalla parte del disastro) dove tutti siamo, egualmente dannati, e finisca per valere come pegno – come uno dei pegni – di resistenza, d’oltranza, d’irriducibilità all’inumano».
(Il bersaglio umano, in «Rinascita», 48, 8 dicembre 1967, p. 26)
Quando i sentieri cominciano a biforcarsi senza scampo (siamo nel 1969), Cesarano non ha esitazioni. È questo ciò che più rifulge nella sua fedeltà e nella sua abiura a questa lingua «ridotta a sognare di esistere», ormai appannaggio esclusivo di una élite sempre più altezzosa e umiliata, tanto più sconfitta quanto più in cerca di un riconoscimento. Cesarano preferisce gli operai, gli studenti, i giovani rivoltosi. Poco più che quarantenne, partecipa al movimento con un fervore e una nostalgia del presente (sono parole ancora di Raboni) che non potevano non lasciargli il segno di un’ustione immedicabile.
All’oltranza poetica, Cesarano preferirà l’oltranza della lotta, dell’incontro, della condivisione politica con un numero sempre più ristretto di compagni; fino alla severa, dolorosa, necessaria solitudine del teorico. Destituire, con la propria poesia, il mondo che rappresenta – lingua sempre più della separatezza e del rifiuto dell’esperienza, lingua «senza vita» – deve essergli apparso il gesto più coerente da compiere; così il suicidio. Ma la sua voce dura, finché dura, per essere sempre fedele alla vita.
Così anche in Cesarano, poeta nella fine e della fine della poesia, il senso e il luogo più profondi si trovano nelle premesse, in quel vago inizio di là da venire. Un’esperienza totalmente organica a quella diversa destinazione d’uso delle nostre esistenze che chiamiamo, provvisoriamente, comunismo. Un’esperienza che non va esposta né prefigurata, ma che c’è irriducibilmente; e incomunicabile solo a chi non l’abbia ancora provata.
Non cercare di dirci,
tornato sulla barca,
ciò che hai visto nel freddo
grigio immerso;
non cercare parole che non esistono:
se nessuno di noi è stato
laggiù, nessuna parola
potrà evocare per noi. Così taci.
[da A Damiano, in La pura verità (1963), poi in La tartaruga di Jastov (1968), p. 14]Da Reperti del Ghetto e del Lager
1961-1962
1
(I riflettori)
Giocando per strada.
Finché viene sera.
La luce del lampione, prima
come una polvere
leggera: brilla, sfuma,
si consuma, ma poi
s’addensa
e cade
sul lastrico, in tondo, cono
dove non si può entrare, limite
che non si varca (come
certi stralunati gatti
si potrebbe restare, trattenuti
appena percettibilmente
prigionieri).
[…]2
(L’inventario)
Cinque bidoni di capelli
opachi.
(Si dice che i falsari
per la filigrana, se
non è una storia da bambini.)
Una cassa di protesi dentarie.
D’oro,
(le collane etrusche
del Museo di Köln,
trovate nelle tombe).
Ma quando
il cielo avvamperà
ma dopo:
lo sguardo nella lente imperterrito
la mano americana sulla penna:
il testo del rapporto
con punti di domanda
(per ipotesi).
Otto casse di sapone.
«Il corpo umano contiene
tanto per cento di grassi,
Helmut
sta attento, sì
professore.»
Cenere.
Grassa
come nessuna
altra cenere, chi
scrisse «tornerai
cenere» non vide
questa mai non così
immaginò alcuno.
E corda:
ferme le dita nel bianco
pomeriggio del Gauleiter posate
sulla trave: la cenere
per attimi
che è possibile contare e poi
lo strappo di corda
li farà crollare.
***
Da Una visita di fine estate
1962-1963
A Franco, Ruth e Livietta
(L’arrivo e prima)
Dentro qui non vedo quasi niente.
Che
mi sembra di scemare già e sono
disilluso come prevedevo (mite
come un canceroso). Duole
la ragione che non so.
So di voler resistere ma è poco.
«Lei scrive lettere
di domande, non annunziano
nulla e alle sue favole
manca sempre qualcosa: la morale
forse, la testa o la coda» (e
subito mi vedo fra meduse).
Veniamo al dunque: sono in fuga.
(…«cerca un cubetto,
Nina, una casettina
quasi proletaria, non ne so di più,
fece mi pare un disegno in aria»)
ma telefonavano
sindacalisti da Torino – nel cuore
della cosa – «accade
il nostro progettato imprevisto»
e io sentivo
materialmente convergere in un fuoco
reale tutte le linee della mente
(della sua, a me niente
Pareva mai possibile:
«Certo già solamente
D’ogni bene il morire…»).
Ma ecco esce di corsa:
«Non poteva telegrafare?»,
la borsa sotto il braccio, «vado
dal sindaco, a più tardi.»
Dentro qui non vedo quasi niente.
[…]
(Prima glossa)
L’amico che mi viene incontro,
che si avvicina,
(in una specie di dis-allontanamento)
dalla strada,
mi è più lontano della strada,
(di quel complesso di strade che è il mondo);
con la qual strada,
col quale complesso di strade come esistente
consapevole
sono in un certo modo immedesimato.
Le cose
(sarà da aggiungere)
si fanno innanzi, vengono incontro,
come sono,
in quel loro essere in sé…
(L’altra voce)
«Ciò che si deve vedere reso invisibile; poi le mani
che si tesero a mostrare:
giacciono, oggetti, nelle teche dei potenti; le voci
che intesero dimostrare ora suonano
registrate hi-fi nei soggiorni
della specie cadetta e tutto
sempre più veloce, fino
all’istantaneità.
Allora dico: siano mani
putrefatte sotto belletti, atti
di sordomuti sorridenti, intollerabili.
Non affreschiamo più le griglie
della fornace!